Elefante africano - Loxodonta africana - Blumenbach, 1797
Elefante africano delle foreste - L. cyclotis - Matschie, 1900
Atlante della Fauna - Mammiferi

Classificazione sistematica

Regno: Animalia
Phylum: Chordata
Classe: Mammalia
Ordine: Proboscidea
Famiglia: Elephantidae
Genere: Loxodonta
Specie: L. africana - Blumenbach, 1797
Specie: L. cyclotis - Matschie, 1900

Fino a qualche anno fa, si pensava che gli elefanti sia asiatici che africani derivassero direttamente dai Mammuth, paleontologicamente parlando.
In particolare i paleontologi pensavano che un progenitore comune, l’ Archidiskodon, avesse generato sia i Mammuth europei che asiatici, a loro volta progenitori del genere Elephas, limitato alle specie asiatiche attuali, mentre il Palaeoloxodon, fosse il progenitore del genere Loxodonta, di cui però ancora oggi non si trovano resti fossili.
Ma nel 1995 alcuni biologi in Uganda, scoprirono resti fossili di un animale classificato come Loxodonta adaurora, datato a 5,5-6 milioni di anni fa, era Quaternaria, che viene fatto risalire al progenitore dei Loxodonta, e fa così cadere l’ipotesi del Palaeoloxodon.
Oggi i biologi esperti di paleontologia suppongono che la famiglia degli Elephantidae abbia avuto una evoluzione indipendente all’interno dell’ordine dei Proboscidati (Proboscidea).
Secondo alcuni biologi, tale famiglia la si deve far risalire addirittura al genere Moeriterio (Moeritherium), con un numero imprecisato di forme intermedie fossili, non ancora scoperte, vissuto nel periodo Oligocenico, quindi circa 40 milioni di anni prima, nelle pianure egiziane.
In ultimo, storicamente parlando, due specie di Loxodonta, l’Elefante di Annibale (Loxodonta pharaoensis) e l’Elefante pigmeo (Loxodonta pumilio), si sono estinte più o meno recentemente.
Si sarebbero estinti, tra il I-II secolo d.C., ma alcuni biologi ritengono che l’origine dell’elefante di Annibale fosse persiana, mentre resti trovati nel bacino del Congo, da cui si è ipotizzata l’esistenza dell’elefante pigmeo, sarebbero da attribuire ad Elefanti di foresta (Loxodonta cyclotis), non del tutto sviluppati.
L’origine di questi animali, è comunque ancora povera di resti fossili e molto controversa per i biologi zoologi e i paleontologi.

Gli elefanti attuali

L’Elefante africano (Loxodonta africana), il più grande dei pachidermi, è anche il mammifero placentato, quadrupede terrestre, più pesante e grande del pianeta. E’ un mammifero eutero di dimensioni enormi, afferente all’ordine dei proboscidati (Proboscidea), famiglia Elefantidi (Elephantidae). Fu descritto la prima volta dal biologo zoologo e botanico inglese John Edward Gray, nel 1836.
Il corrispettivo asiatico, l’ Elephas maximus, di cui parleremo in altra scheda, pur essendo di dimensioni enormi, è più piccolo per entrambi i sessi, con una colorazione più rosata della spessa pelle e zanne di taglia inferiore, assenti nelle femmine. Pur mantenendo sempre un certo grado di selvatichezza, ha un carattere più docile della specie africana.
Il Loxodonta africana è invece molto più selvatico.
Poco incline al contatto umano, mal lo tollera. Non è abituato né assuefatto alla sua presenza, e può caricarlo con inaudita forza e ferocia, se si sente minacciato o lo vede come un pericolo per la prole. Insieme all’Ippopotamo (Hippopotamus amphibius), al Leone (Panthera leo) e al Bufalo Cafro (Syncerus caffer), è una delle principali cause di morte, ad opera d’animali, nelle popolazioni dei villaggi africani, per non parlare delle devastazioni dei campi coltivati che trovano sul loro percorso, o che invadono, per nutrirsi di tuberi, erba, piante e foglie.
Per nutrirsi il Loxodonta africana devasta letteralmente la savana, finché i suoi denti, totalmente consumati e quindi non più utilizzabili, lo condannano a morire d’inedia.
Nessun altro animale, influisce così profondamente sulla savana e sulla ecologia paesaggistica di questo biotopo, quanto l’elefante africano.
Il suo enorme appetito, e la sua straordinaria forza, hanno avuto rilevanti effetti sulla vegetazione e quindi, sull’habitat degli altri animali che frequentano lo stesso areale.
Con la loro lunga proboscide i Loxodonta africana strappano, ad esempio, interi rami di Acacia tortilis, al punto che non riescono più a ricrescere. Inoltre con l’enorme testa buttano giù interi alberi, e i tronchi rimasti in piedi, vengono utilizzati per levigare le zanne, che sono denti incisivi a crescita continua, e per grattarsi. Si liberano così di fastidiosi parassiti, che si annidano nella spessa pelle, infestandoli.
Ovviamente, come già accennato per gli ippopotami, i rinoceronti, i bufali cafri, le giraffe, e altri erbivori, anche per i Loxodonta africana esiste la cooperazione con aironi guardabuoi e bufaghe, per il controllo del numero di parassiti presenti sulla superficie del loro corpo, come ectoparassiti o, incistati nella cute, o anche il rito di tuffarsi e bagnarsi in pozze di fango, con cui si cospargono completamente mediante la proboscide, per il medesimo scopo e anche per rinfrescarsi dalle torride temperature della savana.

Elefante africano Elefante africano - Loxodonta africana (foto www.themagazine.ca)

Gli elefanti africani, vivono in gruppi, detti anche mandrie, costituti da un certo numero di esemplari subadulti, sia maschi che femmine, di cuccioli, che sono sempre rigorosamente protetti all’inter- no della mandria, di 2-3 maschi adulti, che possono cooperare nella difesa, di un numero equivalente di femmine adulte. Alcune sono le madri dei cuccioli, e una femmina, che funge da matriarca, è spesso la guida e la dominante del gruppo. Per questo si dice che la società dei Loxodonta africana è a “organizzazione matriarcale”.
Vi è una femmina dominante, che decide quando è ora di muoversi, in che direzione andare, e chi scacciare dalla mandria perché non è stato ligio alle regole interne del gruppo. Interviene anche nella cura dei piccoli, ed è quella che aggredisce per prima nella difesa del gruppo.
Ad esempio in passato, negli anni ’80, il biologo zoologo John Goddard, direttore e curatore del Serengeti e Ngorongoro Park, notò che un cucciolo d’elefante non veniva allattato per distrazione e pigrizia dalla madre, rischiando quindi di morire di fame.
La matriarca si rese subito conto del problema, e obbligò, con potenti colpi di proboscide, la madre snaturata ad allattare immediatamente il piccolo.
Le mandrie d’elefanti africani, compiono sia transumanze quotidiane, alla ricerca di cibo e acqua, percorrendo anche distanze di 50-70 km al giorno, che vere e proprie “migrazioni sociali” di centinaia di chilometri, seguendo il ritmo delle stagioni.
Nella savana contribuiscono a costituire quella che viene definita dai biologi una “comunità di erbivori”: il risultato della somma di tutte le popolazioni fitofaghe presenti in tale biotopo.
L’evoluzione ecologica ed eco-etologica, la non sovrapposizione delle diverse ecologie alimentari, hanno permesso a un grande e diversificato numero d’erbivori, di vivere nelle savane e praterie, evitando ogni forma di competizione.
Da qui è nato, per i biologi zoologi, il concetto di “biomassa”, che rappresenta il peso totale degli organismi viventi su una data area di superficie. Questo concetto è molto utile agli zoologi, e serve meglio del conteggio degli animali presenti in quell’area, per comprendere i rapporti esistenti tra le piante verdi, produttrici di “sostanza o massa organica”, e gli animali consumatori primari: gli erbivori.
Così un elefante africano, di circa 6 t di peso, mangia giornalmente 30 volte di più di un impala, del peso di 59 kg.
I biologi zoologi del Parco Nazionale di Nairobi, hanno per esempio calcolato che gli erbivori presenti, tra cui gli elefanti africani, costituiscono una biomassa di 12,6 t per km quadrato. Ma in altre zone si arriva a 18-20 t per km², secondo la distribuzione delle specie animali.
Per precisione, una “comunità animale”, non è costituita solamente da erbivori: vi sono anche i carnivori predatori, consumatori secondari e terziari, ed una moltitudine d’invertebrati della pedofauna, di insetti, uccelli e rettili.
La materia organica prodotta dai vegetali, passa quindi attraverso tutta una successione di forme viventi, costituendo una “catena alimentare”.
Le specie carnivore controllano la densità demografica e la moltipli- cazione degli erbivori (tranne gli elefanti e i rinoceronti), mentre gli erbivori condizionano lo sviluppo delle specie vegetali.
Ne deriva un equilibrio ecologico complesso e fragile, che solo va- riazioni casuali, possono rompere temporaneamente.
All’inizio della stagione secca, i Loxodonta africana si nutrono di erbe lungo i laghi, che si vanno restringendo, per poi spostarsi dove le risorse trofiche e l’acqua sono maggiori.
Gli elefanti africani divorano una grande varietà di cibo vegetale, dalle erbe alle cortecce dei tronchi e il fogliame degli alberi, che raggiungono con la lunga proboscide, un organo divenuto un vero e proprio quinto membro, formato dalla fusione del naso col labbro superiore: robusto, lungo e muscoloso, al punto di poter sradicare un albero, è dotato di capacità prensili e tattili molto sensibili.
In certi giardini zoologici americani, sono riusciti ad insegnare ad alcuni elefanti africani l’uso di un pennello per la pittura, e questi hanno creato dei veri e propri capolavori animaleschi!
I tronchi degli alberi, abbattuti anche col corpo, vengono scortecciati e condannati al disseccamento e alla morte, e si riconoscono subito le zone frequentate dagli elefanti, spesso vicino a grosse pozze d’acqua, per la presenza di questi tronchi morti.
In questo modo, a causa degli elefanti, la giungla si trasforma in savana alberata, e quando poi sopraggiungono degli incendi, si degrada a savana erbosa.
Ma tale processo, non è solamente distruttivo, perché, in una certa misura, viene favorita la sopravvivenza di determinate specie animali.
Gli alberi sradicati e i rami rotti che i Loxodonta africana lasciano al loro passaggio, forniscono infatti un facile nutrimento di prima scelta per altri erbivori. E durante la stagione secca, i pozzi che scavano nei letti asciutti dei fiumi, per cercare l’acqua, costituiscono delle riserve idriche, utili ad altri mammiferi, uccelli e rettili.
Infine, scavando coi piedi e con la proboscide, gli elefanti scoprono spesso depositi di sale, di cui sono ghiotti, utili a molte specie.
Alcuni elefanti africani preferiscono degli habitat boscosi. E a causa di questo isolamento geografico, tramite una speciazione a natura “allopatrica”, è nata una specie a se stante detta Loxodonta cyclotis.
Le dimensioni sono sempre cospicue, ma inferiori a quelle dei Loxodonta africana, che popolano la savana alberata e erbosa.
A causa della caccia spietata cui sono stati soggetti durante la seconda metà del secolo XIX e nel secolo XX, fino gli anni ’80, per l’avorio delle zanne e per lo stupido turismo di cacciatori in cerca di trofei, per non parlare del triste fenomeno del bracconaggio, sia il Loxodonta africana che il Loxodonta cyclotis, sono ormai ridotti al limite.
I governi africani, in collaborazione con i biologi zoologi sia africani che stranieri della IUCN, della CITES e del WWF, ed i ranger della guardia forestale, hanno reso illegale, con leggi severe e precise, il commercio dell’avorio e quindi la caccia agli elefanti, confinandoli nel contempo in “parchi naturali a riserva”, dove gli unici safari permessi sono quelli fotografici.
In tali contesti, essendo liberi di riprodursi, la loro popolazione in alcuni periodi è cresciuta tanto in fretta, da esaurire le risorse naturali della regione di confinamento, rendendola arida e obbligando i biologi e i ranger a spostarli in altre zone.
Sia il Loxodonta africana, che il Loxodonta cyclotis, sono autoctoni dell’Africa subsahariana.
In realtà, in passato, la distribuzione del Loxodonta africana era tanto ampia da ricoprire tutta l’Africa subsahariana, mentre oggi è molto più ridotta, e lo si ritrova solo nelle savane erbose e alberate della parte centro-orientale e nord-occidentale, tra il 17° parallelo Nord e il 17° parallelo Sud.
Il Loxodonta cyclotis, di casa nelle foreste e non nella savana, ha una distribuzione più ampia che ricopre quasi tutta l’Africa subsahariana. Ovviamente, per entrambe le specie, all’interno di “aree protette”.
Queste due specie di pachidermi, possono incontrarsi, ma non sono in competizione per le risorse alimentari, e non sembrano incrociarsi sessualmente.
Altri esemplari sono sparsi in tutto il mondo, tranne che ai poli, all’interno di giardini zoologici, zoopark, zoosafari, dove, insieme ai Taxon Advisory Group (TAG) progetti svolti nei parchi e riserve naturali africane, da cui vengono prodotte le guidelines per la corretta gestione e il corretto mantenimento del benessere animale “animal welfare”, vengono svolti programmi di riproduzione sia naturale che artificiale di questi splendidi giganti terrestri, che saranno utili ai biologi zoologi per mantenerne in equilibrio la popolazione.
In termini zoogeografici, in realtà, esistono anche due razze o sottospecie di entrambi le specie africane. Queste razze, che sono il Loxodonta africana africana e il Loxodonta africana cyclotis, sono intrafecondi all’interno dei loro gruppi, e posso essere interfecondi, tra le due razze, perché derivanti da una medesima specie.
Presentano delle differenze somatiche rispetto le specie di origine, ma non così grandi e numerose, da poterli far classificare come specie distinte, ed hanno la medesima distribuzione, negli areali della specie da cui derivano.
Le dimensioni di questi elefanti, sia il Loxodonta africana che il Loxodonta cyclotis, sono davvero enormi.
Come accennato, la seconda specie è più piccola della prima, presenta padiglioni auricolari più arrotondati ed è più bassa al garrese di quelle della savana, pesa di meno e ha zanne più sottili.
Malgrado le enormi dimensioni, la poderosa mole, che incute paura e rispetto a qualsiasi altro animale, sono comunque dotati di una notevole agilità e velocità, quando corrono e caricano, dato che possono raggiungere i 20-25 km/h.
Non è semplice, neanche per un esperto biologo o un esperto indigeno di uno dei villaggi locali, presenti negli areali dove si trovano questi animali, avvertirne la presenza. I Pigmei del Congo, che li cacciavano fino agli anni ’70, come anche i Dorobo del Kenya (utilizzando lance), venivano spesso sorpresi e uccisi dal pachiderma, per schiacciamento, nelle loro battute di caccia.
Possono muoversi silenziosamente, sia nella foresta, che nel bush della savana, senza farsi scorgere. Questo perché, il peso del corpo, viene equamente distribuito sugli arti colonnari e sui giganteschi piedi che li sostengono.
Queste caratteristiche degli arti, così possenti e particolari, che sostengono pesi fino a 6,5-7 t, possono diventare controproducenti, quando, per qualche motivo, uno di questi colossi si rompe un femore o un omero, cadendo per esempio da un dirupo non visto, poiché le capacità rigenerative sono molto scarse.
Quando ciò accade, anche in uno zoo, è praticamente impossibile per i veterinari operarli, e non si riesce nemmeno a costruire delle protesi ortopediche, come invece è possibile per altre specie animali, per sostenerli e garantire una adeguata deambulazione.
Sono di fatto condannati a morte, come i cavalli da corsa con una zampa danneggiata.
Comunque sia, gli enormi piedi gli permettono di avanzare leggiadri, con passo quasi aggraziato, contrariamente a quanto il senso comune potrebbe far pensare.
Pur pesando diverse tonnellate, spesso non lasciano tracce del loro passaggio sul terreno compatto, e per un biologo zoologo che ne studia le abitudini, la vita e i costumi, non risulta sempre così semplice e scontato rintracciarli.
Il Loxodonta africana ha una testa massiccia con grandi padi- glioni auricolari, che sventola sia per la termoregolazione del capo, che per comunicare con codici costituiti dal numero e dalla frequenza degli sventolii. Servono ad impartire ordini, minacce e altre forme d’interazione sociale fra conspecifici.
Nel Loxodonta cyclotis il rapporto fra il volume della testa e la taglia delle orecchie è tale da farle sembrare le più grandi in assoluto, ma in realtà le dimensioni sono sempre a favore della specie che abita la savana.
La fronte è estesa e convessa verso l’alto. Nel maschio di Loxodonta africana, determina una convessità nel tratto iniziale della proboscide, assente nelle femmine. Questo, è un carattere di dimorfismo sessuale, che un biologo esperto riesce a identificare anche da lontano, quando li osserva con un binocolo, anche se la cosa non è poi così semplice.
La robusta e muscolosa proboscide, con la quale raggiungono i rami e le gemme più succulente sulle cime degli alberi, con cui raccolgono abilmente i frutti caduti in terra, e con cui strappano grossi ciuffi d’erba, viene utilizzata anche per bere.
Pur avendo una buona resistenza alla sete, mediamente un elefante beve 90-100 l d’acqua al giorno. Nei periodi più caldi, arriva anche a 200 l, aspirandone 9 l per volta.
Alla sua estremità, la proboscide, che raggiunge la lunghezza di 1,5 m, è dotata di due appendici digitiformi, utilizzate anche per accarezzare i piccoli, mediando processi di socializzazione tattile, o per colpire un compagno o un predatore quando l’animale s’innervosisce.
Ai lati della proboscide, che ricordiamo essersi formata dalla fusione del naso col labbro superiore, sono presenti due imponenti zanne, che nei maschi di Loxodonta africana (nelle femmine possono esserci esemplari senza zanne, ma le femmine delle specie africane ne sono generalmente sempre provviste, al contrario di quelle asiatiche che non le hanno mai) possono raggiungere i 3 m di lunghezza, pesare fino a 50 kg ciascuna e avere un diametro alla base di 20-30 cm.
Costituite d’avorio e rivestite di smalto, hanno la punta rivolta verso l’alto.
Come vedremo, vengono usate negli scontri per la difesa del territorio o di una fonte d’acqua, da rinoceronti o ippopotami che vorrebbero appropriarsene, contro un conspecifico maschio, per la conquista di una femmina durante la stagione degli amori, o contro un predatore, per la difesa della prole, compreso l’essere umano.
I cuccioli di elefanti africani possono talora (e questo vale anche per giovani subadulti) essere preda di leoni maschi.
In quelli asiatici il pericolo viene dalle tigri.
Questo accade, specialmente, quando branchi sono in migrazione o transumanza, alla ricerca di una sorgente d’acqua e di cibo, situazioni in cui, per disattenzione, un piccolo può rimanere isolato e perdersi.
Non riesce più a raggiungere il nucleo in movimento, ed è quindi facile preda dei felini.
In presenza di un maschio, o di una femmina adulta, rarissimamente i leoni, anche in gruppo, hanno il co- raggio d’attaccare, poiché avrebbero la peggio contro il gigante della savana.
Quando questo è accaduto, come filmato negli anni ’60, ’70, dal biologo della fauna, DrSc John Goddard, nel Parco Serengeti in Kenya, anche i più forti felini ci hanno sempre rimesso.
Le dimensioni pachidermiche dei Loxodonta africana, ci dicono che alla nascita un cucciolo pesa già 125-130 kg.
Dopo circa un ora, è in grado di sostenersi in piedi e camminare vicino la madre. Si allatterà sfruttando la coppia di mammelle pettorali, come tipico di tutti i cuccioli che nascono in ambienti aperti, come la savana e le praterie, dove i predatori sono sempre in agguato.
A completo sviluppo un grosso maschio può pesare 6,5-7 t, con una altezza di 3,8-4,5 m al garrese, e si sono osservati anche esemplari maschi enormi di 5 m d’altezza al garrese, per 7-7,5 t di peso, dei veri e propri colossi della Natura !
Le femmine raggiungono 3,8-4 m al garrese, per 4-4,8 t di peso.
Il gigantesco tronco, di color grigio, poggia su arti colonnari, cui fanno seguito dei piedi enormi, con le dita, sia nelle zampe anteriori che posteriori, inguainate in una sorta di cuscinetto elastico. Ciascun dito ha una spessa unghia.
Il Loxodonta cyclotis, specie che da analisi genetiche, come accennato, è risultata essere distinta, ha alcuni tratti somatici differenti: un maschio pesa mediamente 3,5-4 t, oscilla tra i 2,5-3 m al garrese, le orecchie sono più tondeggianti e presentano margini superiori che non arrivano a toccarsi, contrariamente alla specie della savana.
Le zanne, più sottili, presentano la punta rivolta verso il basso, e sono quasi parallele alla proboscide, che sfiora il suolo, mentre nel Loxodonta africana sono molto spesso convergenti.
La mole inferiore, permette all’elefante della foresta di destreggiarsi nella folta giungla tropicale africana e, come quasi tutti i mammiferi che abitano giungle e foreste, conduce un’esistenza più solitaria, vivendo in gruppo solo durante il periodo riproduttivo.

Elefante africano delle foreste Elefanti africani delle foreste - Loxodonta cyclotis (foto http://dzangaforestelephants.wildlifedirect.org)

Quando i Loxodonta africana pascolano dove gli alberi sono rari, l’erba può costituire fino al 90% del loro nutrimento, ma nelle regioni alberate preferiscono rami, fronde e foglie. La maggior parte del cibo mangiato, si ritrova quasi intatto nelle feci. Questo, però, non è indice di una insufficienza funzionale del tubo digerente, ma dipende dalla rapidità con cui le enormi quantità di cibo attraversano l’intestino.
In tale modo vengono trattenute solo le parti più nutrienti dei vegetali, mentre la componente legnosa, indigeribile, viene rapidamente espulsa.
In genere gli elefanti africani riescono a distruggere più vegetazione di quanta ne mangiano. Strappano enormi ciuffi d’erba con le radici, inghiottono terra ricca di salgemma, e masticano dure cortecce polverose; tutto ciò logora profondamente i loro denti.
I pesanti molari trituranti, le cui dimensioni sono equivalenti al pugno chiuso di un bambino di 2 anni, cadono pezzo per pezzo man mano che si consumano, e vengono rinnovati sei volte nell’arco della vita.
Quando però anche i denti dell’ultimo cambio (specie polifiodonte) sono consumati, l’elefante africano non può più masticare il cibo, ed è condannato a morire di fame.
I vecchi maschi (descriveremo successivamente nel testo, questo vero e proprio culto della morte, caratteristica particolare di questi animali) passano sovente gli ultimi anni della loro vita da soli, in prossimità di fiumi, ove la vegetazione che cresce, è più tenera e ricca d’acqua, quindi più facile da masticare senza denti o da inghiottire sana.
La loro odontogenesi (crescita e ricambio dei denti), presenta una particolare “cinetica” di crescita e caduta. Possiamo dire che alla nascita la corona dei denti molari è coperta da cemento, che presto si consuma, esponendo l’avorio e lo smalto sottostanti.
Lo smalto, è più duro dell’avorio, e si consuma più lentamente, formando delle creste atte a triturare le gemme, i rami la corteccia e quant’altro di vegetale.
Durante tutta la loro vita, il Loxodonta africana e il Loxodonta cyclotis usano 24 molari, sei per ogni emi-mascella, ma in genere solo due sono usati contemporaneamente.
I denti sono composti da più lamine. Man mano che si consuma, il dente avanza nella mascella, mentre le lamine, gradatamente consumate, cadono una dopo l’altra.
Questo schema funzionale mostra la successiva sostituzione dei denti (cinetica), in ciascun lato della mascella, nei vari stadi della vita dell’elefante.
I molari detti 1-2, presenti dalla nascita, sono ricoperti da cemento. Quando sono in funzione (masticazione), contemporaneamente si forma un abbozzo del molare 3, posteriormente a loro. Quando i molari 1-2 sono scomparsi, perché caduti, il molare 3 entra in funzione, avanzando di posizione. Man mano che si logora si abbozza il molare 4, stessa posizione posteriore, e quando il 3 è quasi del tutto consumato e sta per cadere, entra in funzione il 4, avanzando pian piano in avanti. La cinetica dei denti fa quindi sviluppare il molare 5, come abbozzo, che va poi a sostituire, finito lo sviluppo, il molare 4 logorato, che cade anche lui, non essendo più utile alla triturazione-masticazione.
Quando il molare 5 è in piena funzione, si comincia ad abbozzare il 6, sempre posteriormente a quello funzionante. Caduto il 5, entra in piena funzione il molare 6, avanzando nella mascella.
Arrivati a questo punto, una volta che il molare 6 è completamente logorato-consumato e non funziona più, cade a sua volta, ma non viene sostituito da nessun altro molare, poiché nessun abbozzo si era precedentemente formato, in posizione posteriore.
Non è chiaro se questo cessato rinnovamento sia funzione dell’età dell’animale, onde per cui le capacità fenotipiche plastiche e rigenerative si sono abbassate fino a interrompersi, o se tutta la cinetica spiegata segua un programma genetico, rigido e fisso.
L’elefante africano poi, come molti altri grossi mammiferi, ha un coefficiente di dispersione termica basso.
Per la legge ecogeografica di Allen-Bergmann, gli organismi che hanno una massa minore, hanno una superficie di dispersione termica maggiore, contrariamente a quelli con massa maggiore.
E mentre le appendici (orecchie, muso etc.) di animali che vivono in reami biogeografici freddi (come nella parte settentrionale dell’emisfero boreale o all’estremo Sud di quello australe) sono ridotte per disperdere meno calore, quelle degli animali che vivono nella fascia equatoriale e tropicale hanno dimensioni maggiori per aumentare il coefficiente di dispersione termica.
Per tale ragione, gli elefanti africani presentano, in entrambe le specie e relative razze, questi enormi padiglioni auricolari, che usano sventolare senza sosta.
Un altro mezzo che utilizzano per combattere temperature dell’ordine di 50°C all’ombra, consiste nel ricoprirsi, testa e corpo, di una crosta di fango umido.
Infine, un ulteriore raffinato mezzo per combattere la calura è garantito da un intricato sistema di vasi sanguigni, che invadono le enormi orecchie, lunghe fino a 1,80 m e larghe 1,50 m. Quando vengono sventolate, il sangue che vi scorre dentro viene raffreddato di 5° C, e dato che poi raggiunge la testa, ne trae beneficio anche l’encefalo dell’animale.
Questo sistema di vasi, consta di vene, che avvolgono le arterie auricolari.
Quando la temperatura corporea aumenta, aumenta anche la pressione sanguigna, che sospinge il sangue nei padiglioni auricolari.
In questo distretto le arterie, dilatandosi per il caldo, cedono parte del calore trasportato dal sangue che vi scorre, mediante un meccanismo simile a uno “scambiatore di calore in contro- corrente”, al sangue che scorre nelle vene che le avvolge, le quali, trovandosi in superficie, lo disperdono all’esterno.
Un meccanismo, questo dello “scambiatore di calore in controcorrente”, che è sfruttato anche dai delfini, a livello delle pinne pettorali, per evitare durante l’intensa attività fisica, il surriscaldamento degli arti.
E quando hanno bisogno d’analisi, è da tali vasi venosi auricolari che biologi zoologi fanno i prelievi di sangue negli elefanti.
Per i primi sette anni di vita, i Loxodonta africana di entrambi i sessi, si sviluppano con la medesima velocità, giunti al settimo anno, pesano 1 -1,5 t.
In seguito i maschi subiscono un cosiddetto “scatto di crescita”, crescendo molto più rapidamente delle femmine, tanto che un maschio dell’età di 50 anni può raggiungere le 6,5-7 t, contro le 4-4,8 t di una femmina della stessa età.
La crescita è continua, non si arresta mai. Teoricamente, se fossero indefinitamente longevi, gli elefanti crescerebbero senza limiti, in altezza e lunghezza. A tale proposito, i biologi hanno osservato che una femmina di 40 anni raggiunge 3,5-4 m al garrese, mentre un femmina di 1 anno di vita passa tra le gambe della madre, usate spesso come rifugio.
I maschi in genere non superano i 50 di età. Le femmine possono arrivare a 60 anni, ma si sono osservati esemplari di entrambi i sessi, che raggiungono 70 anni di vita, veri patriarchi e matriarche della savana.
Le femmine, raggiungono la maturità sessuale, normalmente verso i 10 anni di vita, i maschi uno o due anni più tardi.
Oggi molti gruppi vivono in condizioni precarie per la scarsità di cibo, per il sovraffollamento e per la mancanza d’ombra (pur vivendo in un biotopo caldo gli elefanti sopportano meglio il freddo del caldo) nelle riserve in cui vivono, sempre più piccole a causa dello sfruttamento minerario e agricolo.
A causa di questi stress ecologici, lo sviluppo corporeo ne risente e subisce ritardi. In alcune regioni le femmine non sono feconde fino a 18 anni, e tra una nascita e l’altra possono trascorrere 8 anni, mentre fisiologicamente ne dovrebbero passare 4.
I maschi di Loxodonta africana non corteggiano le femmine prima dell’accoppiamento, ma possono combattere, contro conspecifici del medesimo sesso, per il loro possesso.
Le femmine sono in calore per 1-2 giorni, e durante questo periodo possono accoppiarsi con uno o più maschi (specie poligama).
La gestazione ha una durata media di 660 giorni (poco meno di due anni).
Dopo il parto (sempre e solo parti singoli, sono rarissimi i parti bigemini) le femmine ritornano in calore, due anni dopo, ma continuano ad allattare il cucciolo anche durante la successiva gestazione, fino quindi al terzo-quarto anno di vita.
Come accennato prima, il Loxodonta africana, ha una organizzazione sociale di tipo “matriarcale”. Più precisamente l’unità di base è formata da una femmina adulta accompagnata da una prole fino ai 14 anni di età.
I maschi adulti si riuniscono in gruppi o coppie unisessuali, ma più invecchiano più emerge il loro carattere solitario.
Nel periodo riproduttivo, che ciclicamente si ripresenta ogni 4 anni, le femmine sessualmente mature, si separano dal gruppo, seguite da alcuni maschi, che ingaggiano tra di loro aspre lotte, spingendosi con il muso e colpendosi con le zanne.
Se i maschi duellanti, appartengono a un medesimo gruppo, in genere le contese finiscono presto, senza conseguenze.
In caso contrario, quando uno dei soggetti è esterno al gruppo, le contese diventano durissime, con ferite profonde, e non è rara la morte di uno dei contendenti.
Durante l’accoppiamento il maschio si appoggia con le zampe anteriori sulla schiena della femmina, che deve sopportare un peso enorme, mentre la vagina viene compenetrata più volte col grosso pene.
Questo può comportare gravi incidenti nelle giovani elefantesse, appena sessualmente mature, ma non ancora del tutto sviluppate fisicamente.
Può accadere che un maschio in fregola di una mandria di passaggio tenti l’accoppiamento col rischio di rompere la schiena a una giovane femmina mal capitata, se non intervengono prontamente i membri della mandria (per prima la matriarca) a salvarla, cacciando via l’intruso. Si tratta di veri e propri tentativi di stupro, come si è anche osservato negli orangutan.
In passato, ma spesso anche oggi, la grande mole dell’elefante africano, il suo incedere lento e incerto, e la sua apparente pigrizia, lo ha fatto ritenere dai non esperti un animale poco intelligente e reattivo.
Ma i biologi zoologi, non sono per nulla d’accordo su ciò.
L’alta organizzazione sociale che caratterizza i vari nuclei o mandrie, l’uso così abile della proboscide, le forti interazioni “omoparentali” madre-figlio e “alloparentali” conspecifici-cuccioli, hanno chiaramente mostrato che questo animale, oltre che presentare un encefalo di grandi dimensioni, fino a 5 kg di peso, è dotato di un concreto sviluppo psichico.
Infatti, sebbene si abbia una netta divisione in unità famigliari (e negli individui più anziani si sviluppa una tendenza a fare vita solitaria), nei punti d’acqua (pozze, laghi), convergono spesso contemporaneamente mandrie diverse di elefanti, ed i soggetti che si conoscono si salutano mediante la proboscide.
Questo è reso possibile, grazie alla proverbiale “memoria” che caratterizza questi pachidermi, e alla voce, cioè i “barriti” emessi mediante la proboscide, una specie di gorgoglii prodotti dalla laringe, che sono individuo-specifici e vengono riconosciuti dai conspecifici di altre mandrie.
Possono udirli anche a distanza di chilometri, poiché, insieme all’olfatto, l’udito è forse il senso più sviluppato in questi animali.
In seguito al riconoscimento di questo o questa amico/amica, comincia il saluto vero e proprio, che si esplica mediante il contatto delle proboscidi e delle bocche, intrecciando le zanne : un vero e proprio “Ciao amico, come stai ? Come va la vita ? E’ tanto che non ci si vede”.
Nel contempo, in questo rituale di saluto, gli esemplari, possono annusare il secreto delle reciproche “ghiandole odorose temporali”, scambiandosi così, anche un segnale olfattivo oltre che tattile, dal quale percepiscono, probabilmente, anche lo stato di salute dell’amico/a.
Abbiamo poco fa accennato alla proverbiale “memoria” del Loxodonta africana.
Effettivamente esperimenti sul campo e in ambiente controllato (giardini zoologici, zoosafari, zoopark), di ecofisiologia ed eco-etologia, per lo studio delle capacità mnemoniche (di memoria), su questi animali, hanno condotto i biologi zoologi ed etologi a convincersi che, ne hanno una “realmente sviluppata”.
Per esempio, questi animali sono capaci di ricordarsi, anche a distanza di molti anni, senza esserci ritornati frequentemente, l’ubicazione delle riserve idriche nell’ambiente arido in cui vivono.
Questa capacità si rivela preziosa soprattutto nei periodi di grande siccità, quando la possibilità di sopravvivenza di una mandria è legata all’approvvigionamento idrico.
Le femmine sembrano avere capacità di memoria superiori ai maschi, e forse questo è un altro fattore a loro vantaggio che le rende capogruppo.
Prima di accennare alla particolare caratteristica del “culto dei morti o funerario”, come i biologi lo hanno definito, tipico di questi animali e specialmente dell’elefante africano, diamo ancora uno sguardo, alla “vita in famiglia” che caratterizza il Loxodonta africana.
Sopra, abbiamo asserito, che la madre in sostanza, non è l’unica a occuparsi dei cuccioli, sebbene le cure omoparentali, siano comunque sviluppate.
L’intera mandria si sente responsabile delle cure, del nutrimento e della difesa dei nuovi nati, che vengono aiutati a superare le iniziali difficoltà della vita, che non sono piccole, come l’attraversa- mento di un fiume o la quotidiana ricerca del cibo, una volta svezzati.
Sebbene l’allattamento dovrebbe durare 3-4 mesi, spesso può superare i 2-3 anni, raggiungendo i 4, ma già qualche settimana dopo la nascita, i piccoli sono in grado, tra una poppata e l’altra, di assumere cibo solido, in particolare erba, che tutti gli adulti della mandria provvedono a raccogliere pulire e sminuzzare per facilitargli l’assunzione.
Qualche volta, ai cuccioli è consentito anche “rubare” il cibo, parzialmente masticato, nella bocca di un adulto sia esso la madre e non.
Si possono costituire anche dei veri e propri “nidi d’infanzia”, dove le femmine del gruppo provvedono ad accudire i cuccioli, mentre le madri sono impegnate alla ricerca del cibo.
La balia di turno, tiene sotto controllo i piccoli, evitando che si allontanino. Ne controlla il sonno, e in più mastica il cibo che fornisce loro “elaborato”.
In caso di pericolo, ad esempio all’avvicinarsi di leoni, invece di fuggire tutti gli adulti si dispongono a costituire una barriera, dietro la quale sono nascosti i cuccioli che devono essere protetti.
Se poi, come purtroppo accadeva spesso in passato ad opera di stupidi cacciatori, una madre venisse uccisa, un’altra femmina provvede ad adottare il cucciolo orfano, occupandosi delle cure parentali, tra cui l’allattamento, perché diventa subito in grado di produrre il latte.
Il latte di questa specie animale è molto ricco in grassi e proteine ed è molto denso e nutriente.
Ma una tra le caratteristiche più misteriose e affascinanti per i biologi zoologi, che è costume nelle specie africane di elefanti (per quella asiatica non si hanno ancora dati certi di un fenomeno simile), è quella del “culto dei morti o funerario”.
Infatti questi animali mostrano il loro intelligente e spiccato senso sociale, anche nella cura degli individui ammalati e feriti, della loro mandria.
Tutti i membri del gruppo si prendono cura di chi è ferito o malato anche a morte.
Quando un membro della mandria muore, il suo corpo viene ricoperto grossolanamente di frasche, come se si stesse creando una sepoltura. Questo prima che intorno al cadavere si accalchino animali necrofagi come gli avvoltoi, ad esempio il Capovaccaio Africano (Neophron percnopterus) e altre specie di avvoltoi, o mammiferi come la Iena Maculata (Crocuta crocuta, in passato e ancora oggi da alcuni autori, chiamata Hyaena ridens), gli Sciacalli Dorati (Canis aureus) ed altri animali.
In passato, come sceneggiato su molti film, si pensava che esistessero i famosi “cimiteri degli elefanti”, luoghi introvabili dove andavano gli anziani a morire in solitudine.
In realtà, la presenza di numerosi scheletri rinvenuti in aree circoscritte, di Loxodonta africana e Loxodonta cyclotis, sembrerebbe più logicamente attribuibile, a stragi compiute dagli esseri umani, per l’avorio, o a improvvisi incendi, scoppiati nelle savane, che di sorpresa hanno intrappolato più esemplari contemporaneamente, uccidendoli.

Scheda a cura di Giuliano Russini >>>

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