Falanghina del Sannio DOC
Atlante dei prodotti tipici - Vini DOP e IGP

Zona di produzione e storia

La denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio» è riservata ai vini bianchi per le seguenti categorie e tipologie:
1. «Falanghina del Sannio»
2. «Falanghina del Sannio» spumante
3. «Falanghina del Sannio» spumante di qualità
4. «Falanghina del Sannio» spumante di qualità metodo classico
5. «Falanghina del Sannio» vendemmia tardiva
6. «Falanghina del Sannio» passito
7. «Falanghina del Sannio», «Falanghina del Sannio» spumante, «Falanghina del Sannio» spumante di qualità, «Falanghina del Sannio» spumante di qualità metodo classico, «Falanghina del Sannio» vendemmia tardiva, «Falanghina del Sannio» passito, anche con la specificazione di una delle seguenti sottozone:
I. «Guardia Sanframondi o Guardiolo»
II. «Sant’Agata dei Goti»
III. «Solopaca»
IV. «Taburno»

La zona di raccolta delle uve per l’ottenimento dei vini atti ad essere designati con la denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio», comprende l’intero territorio amministrativo della provincia di Benevento.
Delimitazione della sottozona... (omissis).

Di fondamentale importanza nella produzione del vino Falanghina del Sannio DOP sono i fattori umani legati al territorio di produzione.
In base ai ritrovamenti effettuati ed a studi realizzati si può affermare che la coltivazione della vite nella provincia di Benevento ha origini antiche risalenti al II secolo a.C.
Nel paese di Dugenta fu ritrovato un imponente deposito, con relativo forno di produzione, di anfore utilizzate per la conservazione ed il commercio del vino. Gli studiosi hanno convenuto che sicuramente questa era una fabbrica di anfore costruita in una area particolarmente idonea alla produzione e allo smercio del vino, situata lungo la riva sinistra del fiume Volturno del quale è affluente il fiume Calore che attraversa l’intera provincia di Benevento.
Le anfore ritrovate in provincia di Benevento, venivano prodotte solo in due luoghi, a Dugenta e ad Anzio e venivano utilizzate in un area compresa tra l’Etruria meridionale, Lazio, Campania e Sannio.
Sicuramente il paese di Dugenta rivestiva un ruolo importante nella commercializzazione dei vini in epoca romana, in quanto la produzione di vino soddisfaceva abbondantemente la richiesta locale e quindi il vino veniva venduto anche al di fuori dei confini regionali, questo è testimoniato dal fatto che anfore realizzate a Dugenta sono state ritrovate in Inghilterra del sud e Africa del nord.
Gran parte del vino prodotto nella provincia di Benevento e quello proveniente anche da altre parti d’Italia veniva venduto al mercato vinicolo di Pompei secondo solo a quello di Roma.
In base agli studi effettuati da Attilio Scienza, una forte classe di produttori di vino di origine sannita sarebbe stata presente nella composizione etnica di Pompei, a conferma che la cultura del vino nel Sannio è stata contemporanea se non precedente, all’epoca romana.
Il Sannio per molti secoli ha rappresentato il collegamento naturale tra la Puglia e la Campania.
Attraverso i sentieri della transumanza i Sanniti hanno conosciuto il mondo del vino Abruzzese e Pugliese attraverso i quali hanno portato nel Sannio i vitigni greci dell’Epiro.
Attilio Scienza afferma che del vino sannita troviamo citazioni di Platone comico, commediografo ateniese della seconda metà del V secolo a.C., che parlava dell’eccellente vino di Benevento dal lieve aroma fumé ; inoltre secondo Scienza del vino sannita ne parla anche Plinio nella Naturalis Historia, il quale sosteneva che il vino Kapnios avesse nel Sannio una delle sue patrie d’elezione. Il sapore fumé del vino Kapnios potrebbe non solo essere derivato da una tecnica di appassimento delle uve o dall’affumicamento di queste, ma addirittura dalle caratteristiche stesse dell’uva.
Un’altra importante testimonianza che i Sanniti si dedicassero alla coltivazione della vite e alla produzione del vino, è che quando sul finire del V secolo a.C. famiglie di stirpe sannita si stabilirono nella Valle del Volturno, si è avuto uno sviluppo economico di queste area grazie alla produzione del Trebula balliensis, così come riferito da Plino il vecchio nella sua Naturalis Historia.
Nel beneventano come nel resto della Campania la viticultura conobbe una crisi dovuta al cambiamento del gusto del mercato romano che scoprì i vini più leggeri e profumati dell’Italia settentrionale e della Gallia. Il primo vino Gallico arrivò a Roma nel 79 d.C.
Un inversione di tendenza la si ebbe solo intorno al 500 d.C. grazie ai Longobardi, che non solo importarono vitigni di origine pannonica, ma protessero le vigne dall’espianto addirittura con la pena di morte.
Anche Carlo Magno si occupò attraverso il Capitulare de Villis della cura della vite, ma fu grazie alla chiesa che intorno all’anno 1000 si ebbe il definitivo rilancio della coltivazione della vite che coinvolse anche il territorio sannita. Fu proprio un sacerdote, il vescovo di Benevento Landulfo, a pretendere che vicino ad ogni monastero fossero impiantati dei vigneti, favorendo il rilancio della viticultura soprattutto nella zona di Solopaca come dimostra la presenza di venditori di vino in documenti del 1100.
In questo periodo, e fino al 1400, molti vini beneventani grazie alla possibilità di sfruttare i fiumi navigabili che attraversavano la provincia, arrivavano ai porti di Gaeta e di Napoli i più grandi porti di smistamento dei vini per l’intero Mediterraneo e per i mari del Nord.
A Napoli in quegli anni venivano trasportati ingenti quantità di vino dall’entroterra Beneventano ed Avellinese, ed assieme ai vini fermi venivano trasportati anche vini dolci molto richiesti dal mercato europeo in quel periodo.
La classe mercantile beneventana in quegli anni diventò la più forte della regione Campania, in quanto poteva godere degli enormi benefici derivanti dal fatto che i territori della provincia di Benevento erano sotto il governo dello Stato della Chiesa.
Per una prima descrizione su base scientifica della viticoltura beneventana dobbiamo attendere la Statistica murattiana del 1811, il primo e vero studio del territorio sannita che ha permesso di conoscere le produzioni della provincia di Benevento e di ricostruire le condizioni economichesociali e gli stili di vita della popolazione sannita.
Da questo studio si evince che che la provincia di Benevento produceva vini che soddisfacevano le diverse richieste del mercato infatti il vino di Cerreto Sannita veniva considerato molto pregiato assieme a quello di Solopaca, Frasso Telesino, Melizzano e venivano venduti sul mercato regionale ed extra-regionale; quelli di Sant’Agata dei Goti venivano venduti solo sul mercato provinciale, mentre a Guardia Sanframondi si produceva un vino dolce e liquoroso simile a quello di Malaga.
Da Cerreto Sannita e Guardia Sanframondi partiva nel 1811 il più alto numero di barili di vino per la capitale, 79.229, contro i 31.281 di Airola, i 12.557 di Solopaca e i 10.470 di Sant’Agata dei Goti.
Per quanto riguarda il numero di vigne Cerreto Sannita e Guardia Sanframondi non superavano di molto Solopaca infatti nei due comuni se ne trovavano circa 3.480 ed invece nel solo comune di Solopaca se ne potevamo trovare circa 2.880.
Sempre agli inizi dell’Ottecento c’è testimonianza di un ottimo vino prodotto anche nei comuni di Pontelandolfo, Baselice e Foiano in Val Fortore.
Nel 1872 un grosso studioso, Giuseppe Frojo, incominciò a parlare di vitigno in senso scientifico e sostienne che le migliori uve della regione Campania erano il Pallagrello, oggi diffuso solo nella provincia di Caserta, ma lodava anche le uve Aglianico, Sciascinoso, il Piede di Colombo (Piedirosso), Greco e Fiano, tutti vitigni coltivati nella provincia di Benevento.
Circa venti anni dopo Frojo, fu il Ministero dell’Agricoltura a fare un’accurata analisi delle uve presenti su territorio sannita.
L’Aglianico restava il vitigno predominate, seguito dal Piedirosso, l’Aglianicone, il Gigante, il Mangiaguerra, la Tintiglia di Spagnala Vernacciola e il Sommarello.
Tra i vini a bacca bianca si notano il Bombino, l’Amoroso bianco, la Passolara, il Greco, la Malvasia, il Moscatello e la Coda di Volpe.
In questo periodo il vino prodotto è destinato al consumo interno, in quanto in provincia di Benevento stava nascendo una classe borghese più attenta e sensibile alla buona tavola, ma anche trasportato il nord Italia in quanto molto apprezzato e richiesto.
Negli anni in cui Frojo compiva i suoi studi, la superficie vitata della provincia di Benevento era rappresentata da poco più di 15.000 ettari, estensione che pur ponendo la provincia ultima nella classifica regionale, la rendeva seconda sola a Napoli per rapporto fra territorio e superficie, mentre a partire dal 1904 e almeno fino al 1924 i terreni a vigna erano più che raddoppiati. Negli anni che andavano dal 1896 al 1910 il vigneto sannita si arricchì di 8.046 ettari, pari ad un incremento del 46%.
Dopo l’unità d’Italia nel vigneto sannita vengono coltivate anche altri tipi di vitigni nazionali ed internazionali come il Sangiovese, Barbera, Cabernet Sauvignon, Malbek, Sirah, Erbaluce, Semillon, Pinot e Riesling renano.
Dopo le due grandi guerre mondiali, vi fu un risveglio in tutti i settori produttivi che influenzò anche quello agricolo, e nella provincia di Benevento si verificò che i contadini, fino ad allora solo conduttori dei terreni, ne acquisirono anche le proprietà. In questo periodo la produzione delle uve aumentò sensibilmente nella provincia di Benevento, favorendo da una parte la nascita del primo Enopolio nella provincia a Solopaca che vantava una capacità di 13 mila ettolitri contro i soli cinquemila dell’Enopolio napoletano, ma dall’altra lo sfruttamento dei grossi mediatori nei confronti dei piccoli produttori.
In realtà neanche la creazione dell’Enopolio di Solopaca contribuì a migliorare la condizione dei piccoli produttori e quindi nacquero con il passare degli anni le quattro Cantine sociali ancora oggi operanti sul territorio sannita, La Guardiense, la Cantina sociale di Solopaca e La Cantina del Taburno e il CECAS (Centro Cooperativo Agricolo Sannita).
Il compito fondamentale delle cantine sociali fu quello di raccogliere, trasformare e vendere, le uve provenienti dalle diverse zone della provincia di Benevento, in modo da sostenere i piccoli produttori e favorire lo sviluppo della viticoltura nel Sannio.
Negli anni settanta ad opera di un produttore della provincia di Benevento avviene un cambiamento radicale nelle produzioni del territorio sannita. Il produttore Leonardo Mustilli infatti riscopre la Falanghina, vitigno autoctono a bacca bianca, poco conosciuto e poco coltivato.
La Falanghina di Mustilli fece compiere il salto di qualità ai vini della provincia di Benevento, in quanto ebbe un apprezzamento unanime e diffuso, che i vini sanniti, seppur riconosciuti come ottimi vini, non avevano mai riscosso.
La Falanghina fu lavorata per la prima volta in purezza e questo tipo di lavorazione diede ottimi risultati. Grazie alla lavorazione della Falanghina in purezza, nel territorio sannita si sgretolò l’idea dei blend e si incominciarono ad elaborare vini in assoluta purezza anche con gli altri vitigni da sempre presenti sul territorio sannita.
Il lavoro di Leonardo Mustilli fu importante per l’intero comparto vitivinicolo sannita che, a partire dagli anni Ottanta, ha intrapreso un lento ma graduale percorso verso la qualità.
Nel rilancio della viticoltura del Sannio Beneventano ha rivestito un ruolo molto importante il vitigno Falanghina.
Nel corso dei secoli, il nome “Falanghina” ha subito leggerissime variazioni che consistono soprattutto in sostituzioni di vocali: Falanghina o di consonanti: Falanghina. Non sono noti altri sinonimi che indichino il vitigno, se si fa eccezione per la definizione di Uva Falerna o Falernina che erroneamente il Bordignon trae dal Frojo il quale intendeva soltanto paragonare la bontà del vino di Falanghina a quello molto più famoso del Falerno ma non riteneva certamente identici i due vitigni.
E’ opinione diffusa ma non storicamente accertata che il nome “Falanghina” derivi da “Falanga”, “palo di legno” al quale i ceppi di vite sarebbero stati appoggiati ed allevati verso l’alto.
L’attribuzione di una radice etimologica colta dei nomi delle uve campane è operazione non priva di rischi e contraddizioni. Infatti, se si risale al termine greco jάlagx (falags) si trova che esso assume diversi significati: esercito schierato, cilindro di legno per spostare corpi pesanti, grosso legno cilindrico o bastone, ragno velenoso, articolazione delle dita e nessuno di essi può essere univocamente considerato l’origine del nome Falanghina.
Un altro termine greco jalάggion (phalaggion), dalla stessa radice etimologica, foneticamente più simile al nome del vitigno, indica invece un tipo di erba o una specie di ragno.
Forse nessun’altra specie coltivata, come la vite, ha dato origine ad una progenie di varietà così numerosa tanto da indurre già Virgilio (“…che se qualcuno vuole saperlo (il numero) vada costui nel deserto Libico e conti i granelli di sabbia che il vento tormenta”, Georgica II 104-6), Columella e Plinio a tentare in qualche modo di mettere ordine nel mare magnum dei vitigni allora conosciuti.
L’ampelografia, come classificazione della vite, è perciò una disciplina molto antica ma, come strumento di identificazione e di confronto varietale, prende forma organica all’inizio dell’800 e, nel corso dei decenni, verrà sempre più perfezionata fino ad arrivare all’elaborazione di un “Codice internazionale dei caratteri descrittivi delle varietà e specie di vite” da parte dell’”Office International de la Vigne et du Vin” (OIV), con lo scopo di rendere “oggettive” e perciò confrontabili le descrizioni morfologiche dei diversi vitigni, realizzate da ampelografi diversi.
Quanto fosse importante avere dei criteri scientifici uniformi lo si può ricavare dall’osservazione delle diverse descrizioni della Falanghina fatte nel corso dei decenni.
Il grappolo, ad esempio, può essere allungato, semplice e poco ramoso o piramidale e alato, la forma dell’acino varia dallo sferoide all’ellissoide al decisamente ovale, la foglia va da una forma quasi rotonda all’allungata, dal glabro al lanuginosa, dai seni laterali appena accennati a molto profondi. La stessa destinazione d’uso non coincide: qualcuno la inserisce tra le uve da tavola (Gasparrini e Carusi) ed altri tra le uve da vino.
La descrizione più completa e che tra l’altro coincide con il biotipo di Falanghina attualmente più coltivato nella provincia di Napoli è quella realizzata da Sante Bordignon nel 1965. E’ interessante notare che, in questo lavoro, viene citata una Falanghina Mascolina, poco diffusa già in quegli anni, per distinguerla da quella Verace. Un recente sopralluogo nei vigneti del lago d’Averno ha portato al ritrovamento di alcuni ceppi di una Falanghina piccola, per il grappolo di ridotte dimensioni, che potrebbe coincidere con la Mascolina citata da Bordignon, sparita dalla coltivazione proprio perché meno produttiva.
Nel beneventano è diffuso un altro biotipo di Falanghina, morfologicamente e fisiologicamente diverso da quello presente nel napoletano (20) ed i cui caratteri in parte sono simili a quelli riportati da Carusi nel 1883.
L’ampelografia descrittiva più avanzata, come quella elaborata dall’OIV, non dirime tutti i dubbi sull’identità delle varietà di vite o su possibili casi di sinonimia od omonimia. E’ possibile infatti che due varietà diverse abbiano molti caratteri morfologici coincidenti o che la sensibilità del rilevatore ampelografico non sia sufficientemente affinata.
Dagli inizi degli anni novanta, sono state perciò messe a punto tecniche più oggettive di identificazione varietale, basate su criteri analitici biochimici e non più descrittivi. Sono quindi state sviluppate diverse tecniche di indagine varietale: profili isoenzimatici e uso dei marcatori molecolari del DNA.
Proprio associando i criteri descrittivi con le tecniche di caratterizzazione genetica delle varietà si è potuto stabilire con precisione che la Falanghina è una varietà originale, non coincidente con altre varietà di vite campane o extra regionali, perlomeno fino allo stato attuale delle ricerche internazionali e che i due biotipi di Falanghina, attualmente diffusi in provincia di Napoli e di Benevento mostrano una distanza genetica importante.
Negli anni settanta ad opera di un produttore della provincia di Benevento avviene un cambiamento radicale nelle produzioni del territorio sannita. Il produttore Leonardo Mustilli infatti riscopre la Falanghina, vitigno autoctono a bacca bianca, poco conosciuto e poco coltivato.
La Falanghina di Mustilli fece compiere il salto di qualità ai vini della provincia di Benevento, in quanto ebbe un apprezzamento unanime e diffuso, che i vini sanniti, seppur riconosciuti come ottimi vini, non avevano mai riscosso.
La Falanghina fu lavorata per la prima volta in purezza e questo tipo di lavorazione diede ottimi risultati. Grazie alla lavorazione della Falanghina in purezza, nel territorio sannita si sgretolò l’idea dei blend e si incominciarono ad elaborare vini in assoluta purezza anche con gli altri vitigni da sempre presenti sul territorio sannita.
Il lavoro di Leonardo Mustilli fu importante per l’intero comparto vitivinicolo sannita che, a partire dagli anni Ottanta, ha intrapreso un lento ma graduale percorso verso la qualità.
Da venti anni a questa parte, Benevento è la prima provincia campana per quantità di vino prodotto oltre che per vigneti.

Sannio Doc Falanghina del Sannio Doc

Vitigni - Grado alcolometrico minimo - Invecchiamento e qualifiche

Base ampelografica
I vini “Falanghina del Sannio” sono ottenuti da uve provenienti da vigneti aventi, in ambito aziendale, la seguente composizione varietale:
Falanghina minimo 85%; per la restante parte possono concorrere altri vitigni a bacca bianca non aromatici, idonei alla coltivazione nell’ambito della provincia di Benevento, da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 15%.
La denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio», seguita dalla menzione spumante e spumante di qualità, con o senza specificazione della sottozona è riservata al vino spumante ottenuto, con il metodo della rifermentazione in autoclave da uve provenienti da vigneti composti, nell’ambito aziendale, dal vitigno Falanghina min.85% .
La denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio», seguita dalla menzione spumante di qualità metodo classico, con o senza specificazione della sottozona è riservata al vino spumante ottenuto, con il metodo della rifermentazione in bottiglia, da uve provenienti da vigneti composti, nell’ambito aziendale, dal vitigno Falanghina min. 85%.

I vini a denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio» all'atto dell'immissione al consumo devono rispondere alle seguenti caratteristiche:

«Falanghina del Sannio»:
titolo alcolometrico volumico totale min.: 11,00% vol; per le sottozone 11,50% vol;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto non riduttore minimo: 15,0 g/l.

«Falanghina del Sannio» spumante:
titolo alcolometrico volumico totale min.: 11,50% vol; 12,00% vol per le sottozone;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto non riduttore minimo: 16,0 g/l.

«Falanghina del Sannio» spumante di qualità:
titolo alcolometrico volumico totale min.: 11,50% vol; 12,00% vol per le sottozone;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto non riduttore minimo: 16,0 g/l.

«Falanghina del Sannio» spumante di qualità metodo classico:
titolo alcolometrico volumico totale min.: 11,50% vol; 12,00% vol per le sottozone;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto non riduttore minimo: 18,0 g/l.

«Falanghina del Sannio» vendemmia tardiva:
titolo alcolometrico volumico totale min.: 13,00% vol; 13,50% vol per le sottozone;
acidità totale minima: 4,5 g/l;
estratto non riduttore minimo: 20,0 g/l.

«Falanghina del Sannio» passito:
titolo alcolometrico volumico totale minimo: 16,00% vol; 16,50% vol per le sottozone
acidità totale minima: 4,5 g/l;
estratto non riduttore minimo: 22,0 g/l.

È in facoltà del Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali modificare con proprio decreto i limiti minimi sopra indicati per acidità totale ed estratto non riduttore minimo.

Caratteristiche organolettiche

I vini a denominazione di origine controllata «Falanghina del Sannio» all'atto dell'immissione al consumo devono rispondere alle seguenti caratteristiche:

«Falanghina del Sannio»:
colore: giallo paglierino;
odore: fine, floreale, fruttato;
sapore: secco, fresco, equilibrato.

«Falanghina del Sannio» spumante:
spuma: fine e persistente;
colore: giallo paglierino più o meno intenso, con eventuali riflessi verdolini o dorati;
odore: fine, floreale, fruttato, fragrante;
sapore: fine, fresco e armonico, nelle tipologie extra brut, brut ed extra dry.

«Falanghina del Sannio» spumante di qualità:
spuma: fine e persistente;
colore: giallo paglierino più o meno intenso, con eventuali riflessi verdolini o dorati;
odore: fine, floreale, fruttato, fragrante;
sapore: fine, fresco e armonico, nelle tipologie extra brut, brut ed extra dry.

«Falanghina del Sannio» spumante di qualità metodo classico:
spuma: fine e persistente;
colore: giallo paglierino più o meno intenso, con eventuali riflessi dorati;
odore: fine, floreale, fruttato, fragrante;
sapore: fine, fresco e armonico, nelle tipologie extra brut e brut.

«Falanghina del Sannio» vendemmia tardiva:
colore: giallo paglierino più o meno intenso tendente al dorato;
odore: floreale, fruttato, composito;
sapore: secco, pieno, equilibrato.

«Falanghina del Sannio» passito:
colore: giallo dorato più o meno intenso tendente all’ambrato;
odore: intenso, ampio e composito, caratteristico del vitigno di provenienza;
sapore: amabile o dolce, pieno, armonico, caratteristico del vitigno di provenienza.

In relazione alla eventuale conservazione in recipienti di legno il sapore dei vini può rilevare lieve sentore di legno.

Abbinamenti e temperatura di servizio

Variano a seconda della tipologia di vino.

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