Pitina IGP
Atlante dei prodotti tipici - Salumi tipici italiani

Disciplinare di produzione - Pitina IGP

Pitina IGP Pitina IGP

Articolo. 1
Denominazione del prodotto

L’Indicazione Geografica Protetta – I.G.P. – a denominazione «Pitina» è riservata al prodotto che risponde alle condizioni ed ai requisiti stabiliti nel presente disciplinare.

Articolo 2.
Descrizione del prodotto

La «Pitina» è ottenuta da un impasto costituito da: una frazione prevalentemente magra di carne di una delle seguenti specie animali: ovino, caprino, capriolo, daino, cervo, camoscio;

una frazione prevalentemente grassa di pancetta o spallotto di suino.

La «Pitina» viene preparata, affumicata e stagionata nel territorio indicato all’Art. 3.

La «Pitina» esternamente si presenta di forma semisferica, di colore compreso tra il giallo dorato ed il giallo bruno; il colore interno al taglio è compreso tra il rosso vivace ed il bordeaux carico con la parte più esterna più scura. Al taglio l’impasto si presenta magro con grana molto fine. Il sapore è complesso e sapido con un caratteristico aroma di fumo.

La «Pitina» ha peso compreso tra i 100 e i 300 grammi. Viene commercializzata intera, confezionata sottovuoto o in atmosfera modificata.

La «Pitina» al momento dell’immissione al consumo presenta le seguenti caratteristiche chimico- fisiche:

Pitina IGP

Articolo 3.
Zona di produzione

La «Pitina» è ottenuta esclusivamente nel territorio comunale dei Comuni di Andreis, Barcis, Cavasso Nuovo, Cimolais, Claut, Erto Casso, Frisanco, Maniago, Meduno, Montereale Valcellina, Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto.

Tutta la zona di produzione rientra nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, provincia di Pordenone.

Articolo 4.
Prova dell'origine

Il processo produttivo deve essere monitorato documentando per ognuna delle fasi gli input e gli output. In questo modo, e attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dall’organismo di controllo, dei macellatori e/o sezionatori, dei trasformatori e dei confezionatori, nonché attraverso la dichiarazione tempestiva alla struttura di controllo delle quantità prodotte, è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, sia fisiche che giuridiche, iscritte nei rispettivi elenchi, saranno assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo.

Articolo 5.
Metodi di ottenimento

§.1 Materia prima
1. La materia prima per la lavorazione della «Pitina» è costituita da carne di ovino o di caprino o di selvaggina ungulata limitatamente alle specie capriolo, daino, cervo, camoscio per la frazione prevalentemente magra e da pancetta e/o spallotto di suino per la frazione prevalentemente grassa.
2. La materia prima è approvvigionata dai macelli o da laboratori di sezionamento ed è consegnata ai trasformatori allo stato fresco, in condizioni di refrigerazione, con temperatura compresa tra -1 e +7°C misurata al cuore della massa; non è ammessa carne separata meccanicamente.
3. La materia prima presenta i seguenti requisiti:

a) colore e caratteristiche della carne: colore rosso del magro, assenza di grasso di copertura e di microemorragie o di ematomi;

b) colore e caratteristiche della pancetta e/o spallotto di suino: colore rosso-rosato del magro e bianco candido del grasso.

§.2 Fasi e metodi di lavorazione

1. Le fasi attraverso le quali è eseguita la lavorazione della «Pitina» sono le seguenti:

  • mondatura
  • macinazione
  • impastatura
  • affumicatura
  • asciugatura
  • stagionatura

2. Per la fase di mondatura le carni vengono disossate, sgrassate e private dei tendini. La pancetta e/o spallotto di suino deve essere mondata della cotenna e privata di eventuali sfilacci di grasso non compatto.

3. Le carni così ottenute vengono tritate in attrezzature idonee al fine di ottenere un impasto omogeneo. La tritatura deve essere effettuata con piastre aventi il diametro dei fori compreso tra 4,5 e 7 millimetri. La materia prima carnea deve osservare le seguenti percentuali di composizione:

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4. La componente magra deve essere costituita con carni di un’unica specie animale compresa tra quelle indicate al punto 1 del § 1

5. Il trito così ottenuto viene impastato con la concia. Quest’ultima è costituita in una miscela di sale marino o di salgemma ovvero da una miscela tra i medesimi, associata a pepe, aglio, vino ed erbe aromatiche con l’uso di nitriti e nitrati. Le erbe aromatiche ammesse sono: ginepro, kümmel o finocchio selvatico, semi di finocchio, achillea muscata. La concia osserva inoltre la composizione in grammi per chilogrammo di impasto carneo riportata nella tabella che segue:

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Dall’impasto così ottenuto si elaborano singoli agglomerati a forma semisferica del peso variabile tra i 150g e i 400g.
La superficie esterna degli agglomerati viene cosparsa di farina di mais fino ad ottenere una impanatura omogenea.

6. Gli agglomerati così ottenuti sono collocati in appositi ambienti dove ha luogo l’affumicatura. Il fumo è prodotto dalla combustione di legno o segatura di legno di faggio, carpine o alberi da frutto. L’operazione di affumicatura ha una durata variabile tra le 4 e le 48 ore, nel corso delle quali viene alimentata la combustione per un periodo complessivo di durata compresa tra 3 e 12 ore. L’ambiente di affumicatura è mantenuto a temperature comprese tra 18 e 30°C. L’affumicatura deve essere effettuata prima della stagionatura.

7. In seguito il prodotto subisce un processo di asciugatura al fine di favorirne l'essiccamento e la diffusione della concia nella massa carnosa. Tale fase ha durata compresa tra 2 e 8 giorni computati a partire dalle ore 24 del giorno di inizio asciugatura, nel corso dei quali il prodotto viene mantenuto in ambienti a temperatura compresa tra 10 e 18°C e umidità variabili tra 50 e 85%.

8. Al termine delle operazioni di asciugatura il prodotto è riposto nei locali dove ha luogo la stagionatura. La stagionatura avviene in ambienti muniti di aperture verso l’esterno per consentire sia la ventilazione che il ricambio dell’aria, in condizioni di temperatura comprese tra i 3 e i 18°C e di umidità variabile tra il 60 ed il 90%. Tali locali devono essere muniti di attrezzature idonee a mantenere il giusto equilibrio e le caratteristiche termo-igrometriche prescritte anche in funzione dei fattori climatici presenti nell’area di elaborazione.

9. La “Pitina” può essere messa in commercio non prima che siano trascorsi 30 giorni dall'inizio della lavorazione, intesa come data di impasto.

§.3 Confezionamento del prodotto Al termine della fase di stagionatura la «Pitina» può essere confezionata per la commercializzazione nelle tipologie descritte all’art. 2.

Le operazioni di confezionamento della «Pitina» possono essere effettuate esclusivamente in laboratori situati nel territorio descritto all’Art.2 e nel medesimo contesto della lavorazione. Limitare il confezionamento al contesto di lavorazione della «Pitina» è necessario al fine di garantire il mantenimento della specificità del prodotto. A differenza di altri prodotti stagionati, la «Pitina» non prevede una fase di insacco in budello dell'impasto. L'unico agente “avvolgente” e protettivo è costituito dalla farina di mais presente sulla superficie dell'impasto agglomerato a forma semisferica. Pertanto, confezionare il prodotto nel medesimo contesto della lavorazione evita sia la perdita della forma della «Pitina», sia un indurimento eccessivo del prodotto dovuto alla permanenza del prodotto in ambienti con condizioni di umidità e temperatura non controllati.

Articolo 6.
Elementi che comprovano il legame con il territorio

Il territorio di produzione della “«Pitina»” sotto il profilo geografico si identifica in tre valli denominate Valcellina, Val Colvera e Val Tramontina, inserite nel comprensorio montuoso soprastante l'alta pianura friulana occidentale, racchiuso tra il corso dei fiumi Tagliamento e Piave. Parte del territorio ricade nel comprensorio del Parco Naturale Dolomiti Friulane.

Si tratta di un territorio storicamente contrassegnato da povertà, emigrazione e da un’economia di sopravvivenza, nella quale la carne era un bene prezioso e dove erano rarissime le tracce dell’allevamento del maiale, lusso che in queste valli non ci si poteva permettere; la provvista di proteine animali derivava dalle carni di pecore e capre macellate per raggiunti limiti di età o perché ferite o cadute in un dirupo ovvero, saltuariamente, da carni di selvaggina ungulata frutto di caccia esercitata quasi sempre di frodo.

La necessità di conservare il più a lungo possibile soprattutto per i mesi invernali la poca carne disponibile ha fatto evolvere tecniche di conservazione, del resto comuni a tutto l’arco alpino e all’area del nord Europa, tra le quali l’affumicatura e la stabilizzazione con l’aggiunta del grasso di suino.

Nel caso della «Pitina», le carni che non venivano consumate subito e, più in generale, le parti meno pregiate, venivano sgrossate, ripulite dalle componenti adipose e dai tendini, sminuzzate su un tagliere chiamato “pestadoria” con un pesante coltello chiamato “manarin” e quindi ricomposte in polpettine con l’aggiunta di sale, spezie (talvolta messe a macerare nel vino), finocchio selvatico. Le polpettine (“pitine”) venivano poi passate nella farina di mais e quindi messe ad asciugare al fumo del camino (“fogher” o “fogolar”).

Il nome “Pitina” si è originariamente diffuso nella Val Tramontina. I primi produttori dei quali è rimasta traccia (i proponenti hanno raccolto originali testimonianze della tradizione orale, intervistando anziani emigrati negli Stati Uniti, che permettono di risalire all'inizio dell'800) sono stati gli abitanti delle frazioni di Inglagna e Frasaneit, nel comune di Tramonti di Sopra. In questo Comune fin dal 1969 la Pro Loco ha recuperato la tradizione locale organizzando la Festa della Pitina che da allora si ripete ogni anno in luglio. Ed è stato proprio un macellaio di Tramonti di Sopra, Mattia Trivelli, a presentare in data 4 aprile 1989 la domanda di registrazione del marchio “Pitina” all'Ufficio Italiano Brevetti.

Una serie di testimonianze orali, raccolte da studiosi locali a partire dal 1978 (“La cultura popolare di Andreis e la sua valle” – tesi di laurea di Renata Vettorelli – Università degli studi di Urbino – anno accademico 1981-82) permettono di affermare con certezza che la preparazione ed il consumo della «Pitina» erano largamente diffusi all’inizio dell’800 in Val Tramontina e nelle vallate limitrofe.

La scarsità di documentazione scritta riguardante la «Pitina» viene spiegata dai ricercatori (come l’arch. Moreno Baccichet, docente universitario di Treviso) con il fatto che trattasi di un prodotto originariamente non utilizzato come merce di scambio: “La carne in argomento non veniva commerciata e quindi non era oggetto di nessuna scrittura contabile quale la registrazione di incassi o baratti di merce. Inoltre la pitina era considerata una carne “povera” riservata al popolo e quindi non veniva offerta ne tantomeno consumata dai nobili e dai benestanti”.… a maggior ragione, non usciva dalla stretta cerchia familiare la «Pitina» preparata talora con la selvaggina cacciata abusivamente….

In ogni caso, vista la carenza di documentazione scritta, appare importante la citazione della «Pitina» nel volume “La valle del Colvera” (Mazzoli, Maniago, 1973): “… La pitina veniva preparata con carne di ovini e caprini…” ed appare significativa la dettagliata descrizione presente nel volume “Civiltà contadina del Friuli – architettura spontanea e lavoro a Navarons” edito nel 1979: “Pitina – E’ una polpetta schiacciata (otto centimetri di diametro e tre di spessore) di carne di pecora o di montone, di capra o di becco o di camoscio. La carne è disossata, ripulita dal grasso, macinata a macchina o tritata a mano, salata e pepata e con l’aggiunta di aglio e di una percentuale di lardo. Il composto è ben amalgamato e passato nella farina di polenta. Le porzioni vengono affumicate su braci di legno di ginepro. Le “pitini” si possono conservare in luogo asciutto anche per oltre un anno”. (“pitini” costituisce un maldestro tentativo di rappresentare al plurale la denominazione …)

La tradizione della «Pitina» in val Tramontina è citata nella “Guida turistica” della V Comunità Montana edita nel 1989. “… un particolare cenno merita la “pitina” … di Mattia Trivelli… a base di carne di montone affumicata con rare erbe aromatiche e dosata sapientemente con spezie secondo una antica ricetta di famiglia gelosamente custodita”.

Tra il 1997 ed il 2000 la «Pitina» viene inserita da Arcigola Slow Food nel primo elenco dei prodotti da salvare, contestualmente alla redazione di un video (Pieffe immagini, Maniago, 1999) ed alla fondazione di un apposito “presidio”, per salvaguardarne tradizione e ricetta.

Quasi contemporaneamente il prodotto viene inserito nel primo elenco del registro dei prodotti tradizionali redatto dalla Regione Friuli Venezia Giulia ai sensi del DM 350/99.

La stessa opzionabilità della materia prima carnea (alternativamente di origine ovina o caprina ovvero di selvaggina) inquadra la specificità di un connotato assolutamente “local”, impraticabile nei normali contesti industrializzati, quantomeno per la fragilità dell’elaborato e della assoluta prevalenza del savoir-faire rispetto al know-how per la lavorazione di un prodotto che stagiona ma non si essicca, grazie anche alla irripetibile condizione eco-ambientale della zona.

Le caratteristiche inquadrate dall’Osservatorio meteorologico regionale (OSMER, 2011) definiscono infatti per l’area in questione il profilo meteo-climatico autonomo di una enclave prealpina segnata da medie annue di precipitazioni autenticamente da record, con frequente rimescolamento delle masse d’aria aggiunte alla specificità del contesto orografico che ospita il “più basso nevaio permanente delle Alpi” (mt 1200 sldm), proprio al centro geo-economico dell’areale delimitato.

La «Pitina» è il frutto di questa singolare ed irripetibile condizione, dando vita ad un prodotto di carne stagionata ma contemporaneamente non essiccata, grazie alle modalità di composizione, di impasto e di lavorazione della materia prima impiegata ma anche grazie all’assenza di umidità stagnante seppure in una delle zone più piovose del nord Italia: l’effetto dell’enclave pesa anche sul tipo di carne impiegata, che ignora – per ragioni storiche e socio-economiche - bovini e suini, viceversa prevalenti nella macro-regione e nelle stesse aree immediatamente contermini, aggiungendole in modo assolutamente originale all’uso dell’affumicatura in assenza di budello e/o di cotenna e/o di un autentico involgente protettivo (diverso da un velo di farina di mais …); non a caso, quindi, il medesimo “effetto enclave” trova conferma nella inesistenza di esperienze produttive similari o comparabili in vastissime porzioni di territorio italiano ed europeo.

Articolo7.
Controlli

La verifica del rispetto del presente disciplinare è svolta conformemente a quanto stabilito dall’art. 37 del Reg. (UE) 1151/2012. L'organismo di controllo a ciò preposto è l'INEQ – Istituto Nord Est Qualità, via Rodeano, 71 – San Daniele del Friuli (UD), tel. 0432 940349, fax 0432 943357.

Articolo 8.
Etichettatura

1. Ogni confezione deve recare il logo del prodotto e il simbolo dell'Unione Europea.

2. La designazione dell’indicazione geografica protetta «Pitina» è intraducibile e deve essere apposta sull’etichetta in caratteri chiari e indelebili, nettamente distinguibili da ogni altra scritta che compare in etichetta; essa deve essere immediatamente seguita dalla menzione “Indicazione geografica protetta” e/o dalla sigla I.G.P.. È vietata l’aggiunta di qualsiasi qualificazione non espressamente prevista. È tuttavia consentito l’utilizzo di indicazioni che facciano riferimento a nomi o ragioni sociali o marchi privati purché non abbiano significato laudativo o tali da trarre in inganno il consumatore.
Il logo del prodotto è costituito dall’insieme grafico di simboli e parole di seguito raffigurato:

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3. Il logo del prodotto è costituito da un quadrifoglio composto da quattro lettere “P” stilizzate, (tre delle quali bordate ed una completamente colorata), ruotate di 45, 135, 225 e 315 gradi rispetto all'asse verticale. Accanto al quadrifoglio compare la dicitura “Pitina” secondo le forme rappresentate, con l'iniziale “P” stilizzata tal quale quelle che compongono il quadrifoglio, le lettere seguenti utilizzando il font Swiss 721 Black Rounded. Il quadrifoglio e la dicitura sono contornati nella parte inferiore da una semi ellisse assottigliata agli estremi. Il logo del prodotto può essere riprodotto in qualsiasi colore, ma rimanendo rigorosamente monocromatico; non sono ammessi retini, né nelle parti in colore, né nelle parti vuote delle “P” bordate. Il logo va riprodotto esclusivamente in positivo, su fondo bianco o comunque chiaro, senza fondini o riquadri. La dimensione minima in lunghezza non dev'essere inferiore a 25 millimetri, con una risoluzione non inferiore a 300 dpi.

4. Il logo del prodotto è obbligatoriamente riprodotto su etichette, confezioni e vesti grafiche in genere per tutti i prodotti confezionati, con la prescrizione che il relativo ingombro – calcolato rapportando alla superficie di un rettangolo corrispondente all’altezza ed alla lunghezza complessive del marchio – non sia inferiore al 10% e superiore al 25% della superficie totale della etichetta o della veste grafica.

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